arte

Arte

Carlotta Nobile

Violinista e blogger

Sono nata da papà Vittorio e mamma Adelina, dopo 8 anni dalla mia nascita è arrivato finalmente Matteo. Fin da piccola mia madre mi trasmette la passione per la musica, infatti a 3 anni inizio a suonare il violino e a 17 mi diplomo al Conservatorio con il massimo dei voti. A pochissimi giorni di distanza, conseguo anche la maturità classica, sempre a pieni voti.

Gli studi musicali mi danno la possibilità di viaggiare, di conoscere altre culture e stili di vita. La passione per l’arte mi porta a un passo dalla laurea in Studi Storico-artistici. Oltre agli impegni musicali e universitari, coltivo l’interesse per la scrittura. Nell’ottobre 2011, a 22 anni, mi viene diagnosticato un melanoma, sono ancora lontana dalla fede. Condivido la malattia in maniera anonima, attraverso una pagina Facebook e il sito web (il Cancro E Poi_) e mettendo a servizio dei malati la mia musica: suono nei reparti di oncologia il mio violino.

Nel marzo 2013 – al risveglio da un coma – tutto si fa luce, la mia vita in un attimo è cambiata, il Signore mi ha guarita nell’anima, lì dove ero veramente malata. Inizio a vivere in modo nuovo, nonostante il cancro si faccia sempre più aggressivo. Lo stesso anno, all’alba del 16 luglio (festa della Madonna del Carmelo), me ne sono andata circondata dall’affetto della mia famiglia.

– Il più grande fallimento nella vita non è la morte ma è lo smettere di amare.

– So che il cancro mi ha guarita nell’anima, sciogliendo tutti i miei grovigli interiori e regalandomi la Fede.

– Noi siamo molto più che malati di cancro. Siamo sentimenti, gioie, lacrime, sogni, creatività, legami, silenzi, urla, sconfitte, vittorie: nulla di tutto questo si può buttare via! Ora possiamo amare noi stessi in un modo in cui non ci siamo amati mai.

– Vivere al massimo ogni istante, con gratitudine e riconoscenza, come un piccolo miracolo che si ripete ogni giorno.

– C’è un disegno più grande. Tutto questo ha un senso unico e io sono orgogliosa di poter crescere così e vivere questa cosa.

– Io non so più neanche quanti centimetri di cicatrici chirurgiche ho. Ma li amo tutti, uno per uno, ogni centimetro di pelle incisa che non sarà mai più risanata. Sono questi i punti di innesto delle mie ali.

– Perché vuoi dimostrare prima di tutto a te stessa che si può avere un melanoma metastatico che non si arrende, eppure VIVERE, con tutto ciò che questa parola vuol dire. Vivere tutte le gioie, i progetti, i dolori, le lacrime che la vita di 23enne ti regala ogni giorno. Perché c’è un E POI per cui non smetterai mai di combattere, perché nessuno può toglierti l’assoluta certezza che – nonostante tutti i tagli, le cicatrici, gli aghi nelle vene, i controlli, i liquidi di contrasto, gli interventi e i dolori – c’è una gioia immensa che ti aspetta, c’è il tuo più grande sogno che ti guarda da un tempo futuro e non vede l’ora di raggiungerti. Perché tutto quello che stai vivendo ti verrà un giorno riscattato. Perché in fondo il modo che hai ora di guardare alla vita non potevi che raggiungerlo così

– Io sono guarita nell’anima. In un istante, in un giorno qualunque, al risveglio da una crisi. Ho riaperto gli occhi ed ero un’altra. E questo è un miracolo.

– E in un attimo capisci che è stato proprio quel cancro a GUARIRTI L’ANIMA, a riportare ordine nella vera essenzialità della tua vita, a ridarti la Fede, la speranza, la fiducia, l’abbandono, la consapevolezza di essere finalmente diventata chi per una vita intera hai fatto di tutto per essere e non eri stata mai: una donna SERENA! Capisci che è stato il cancro a permetterti finalmente di amare te stessa in un modo incondizionato, con tutti i tuoi pregi e tutti i tuoi limiti, a godere di ogni più piccolo istante, ad assaporare ogni attimo, ogni odore, ogni gusto, ogni sensibilità, ogni parola, ogni condivisione, ogni più piccolo frammento di infinito condensato in un banalissimo e preziosissimo istante. Capisci che è stato il cancro, con il suo tormento, con le sue aggressività, con le sue asprezze a portarti infine la LUCE.

– L’amore è l’unica forza capace di mediare fra la libertà e il destino

– Ben vengano gli incubi notturni se poi al mattino vieni colta dalla forza del più grande dono che ognuno di noi possa ricevere, esserci

–  Io sono onorata e fortunata di poter portare la Croce con Gioia a 24 anni. So che il cancro mi ha guarita nell’anima, sciogliendo tutti i miei grovigli interiori e regalandomi la Fede, la Fiducia, l’Abbandono e una Serenità immensi proprio nel momento di maggior gravità della mia malattia.

Madeleine Delbrel

Laica consacrata

Assistente sociale

Sono nata a Mussidan, in Francia, il 24 ottobre del 1904. Come tanti bambini, ho ricevuto la prima comunione a 10 anni ed ero molto felice. Quella dolce presenza in me è come svanita nella mia adolescenza e a 17 anni pensavo che Dio non esistesse… ma pochi anni dopo qualcosa dentro di me è cambiato, grazie ai miei amici: nelle loro vite ho potuto vedere la presenza viva di Dio che mi interpellava fortemente. Così ho deciso di cominciare a pregare, gettandomi nel buio, sperando però di incontrare Dio, pronto ad abbracciarmi… e la sua luce mi ha abbagliata! Leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto” che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona.

Desiderosa di vivere in maniera sempre più concreta il Vangelo, insieme ad alcune amiche mi sono trasferita a Ivry, una città alle porte di Parigi; abbiamo formato una comunità di donne, laiche, senza abito religioso o difese istituzionali. Io lavoravo come assistente sociale, un’altra come infermiera, la terza era una maestra d’asilo.

La strada è diventata la nostra terra di missione, abbiamo lavorato a fianco delle famiglie del quartiere, condividendo fatiche e speranze, cercando di donare loro la forza del Vangelo.

I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero.

 

Se noi fossimo gente di fede potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

 

Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio.

 

Gesù vuol vivere in me. Lui non si è isolato.

Ha camminato in mezzo agli uomini.

Con me cammina tra gli uomini d’oggi.

Incontrerà ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa, ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,

altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,

altri eruditi e altri ignoranti,

altri bimbi e altri vegliardi,

altri santi e altri peccatori,

altri sani e altri infermi.

Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.

Ciascuno, colui che è venuto a salvare.

A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.

A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.

Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.

Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.

Nel tumulto, la sua pace da portare.

Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.

Vuole in me rimanere legato al Padre.

Dolcemente legato,

ogni secondo,

sospeso su ciascun secondo,

come un sughero sull’acqua.

Dolce come un agnello

di fronte a ogni volontà del Padre.

Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,

tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.

Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me

non può impedirmi di essere con Dio;

come un bimbo portato sulle braccia della madre

non è meno con lei

per il fatto che lei cammina tra la folla.

Gesù, dappertutto, non ha cessato d’essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d’essere,
in ogni istante,
gli inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l’umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.

Attraverso i fratelli più vicini ch’egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.

Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.

 

 

Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c’è uno

Spirito che soffia in tutti i luoghi.

 

C’è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n’è altra che egli lascia nella moltitudine, che non «ritira dal mondo».

È gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive un’ordinaria vita da celibe. Gente che ha malattie ordinarie, e lutti ordinari. Gente che ha una casa ordinaria, e vestiti ordinari.

È la gente della vita ordinaria. Gente che s’incontra in una qualsiasi strada. Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta che si è rinchiusa definitivamente sopra di essi.

Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità.

Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché se questo necessario ci mancasse Dio ce lo avrebbe già dato.

 

L’amore evangelico (in noi si dovrà trovare tutto)  

Madeleine Delbrel, Indivisibile amore, Piemme 1994, p. 155

In noi si dovrà trovare tutto
il bicchiere d’acqua, il cibo per chi ha fame,
tutto il vero cibo per tutti i veri affamati,
tutti i veri cibi e tutti i veri mezzi per distribuirli,
l’alloggio per i senza tetto,
il pellegrinaggio alle carceri ed agli ospedali,
la compassione per le lacrime, quelle che si devono versare insieme
e quelle di cui occorrerebbe eliminare le cause,
l’amicizia per ogni peccatore,
per coloro che sono malvisti,
la capacità di mettersi al livello di tutte le piccolezze,
di lasciarsi attrarre da tutto ciò che non conta,
e tutto avrà il suo orientamento, la sua pienezza, nella parola “fraterno”.

Infatti i nostri beni, se diventano i beni degli altri, saranno il segno della nostra vita donata per gli altri, come assimilata di diritto alla loro, e che, in realtà, non deve più far parte dei nostri interessi.

Il cristiano che vivrà in questo modo nella città, sperimenterà con tutto il suo essere la forza dell’amore evangelico. La realtà di questo amore risplenderà intorno a lui come una evangelizzazione e in lui come una illuminazione.

Sperimenterà che agire è illuminare, ma anche essere illuminati, sperimenterà che, se pregare è lasciarsi fare da Dio, è però anche imparare a compiere l’opera di Dio.

Un cristiano simile renderà grazie, perché tutti i suoi gesti diventeranno l’espressione di un amore che non conosce né limiti né eccezioni, un amore del quale soltanto Cristo ha detto agli uomini che lo devono e ricercare e donare.

 

Il filo del vestito  Madeleine Delbrel

Nella mia comunità, Signore, aiutami ad amare,
ad essere come il filo di un vestito.
Esso tiene insieme i vari pezzi
e nessuno lo vede se non il sarto che ce l’ha messo.
Tu, Signore, mio sarto, sarto della comunità,
rendimi capace di essere nel mondo
servendo con umiltà,
perché se il filo si vede tutto è riuscito male.
Rendimi amore in questa tua Chiesa,
perché è l’amore che tiene insieme i vari pezzi.

 

L’estasi delle tue volontà  

Madeleine Delbrel, Che gioia credere

 

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto.

Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa
in tutta la nostra vita,
noi ne rimarremmo meravigliati
e l’aver compiuto questa sola volta la tua volontà
sarebbe «l’avvenimento» dei nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto
tu metti nelle nostre mani tanto onore,
noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi,
da esserne annoiati.

Tuttavia, se comprendessimo quanto inscrutabile è il tuo mistero,
noi rimarremmo stupefatti
di poter captare queste scintille del tuo volere
che sono i nostri microscopici doveri.

Noi saremmo abbagliati nel conoscere,
in questa tenebra immensa che ci avvolge,
le innumerevoli
precise
personali
luci delle tue volontà.

Il giorno che noi comprendessimo questo
andremmo nella vita come profeti,
come veggenti delle tue piccole provvidenze,
come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te.
Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti dei predestinati all’estasi,
tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi
per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.

Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero,
ma dei felici eletti,
chiamati a sapere ciò che vuoi fare,
chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.

Persone che ti sono un poco necessarie,
persone i cui gesti ti mancherebbero,
se rifiutassero di farli.
Il gomitolo di cotone per rammendare, la lettera da scrivere,
il bambino da alzare, il marito da rasserenare,
la porta da aprire, il microfono da staccare,
l’emicrania da sopportare:
altrettanti trampolini per l’estasi,
altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà,
dalla nostra cattiva volontà
alla riva serena dei tuo beneplacito.

Tratto da Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 127-145.

 

Il secolo XX, appena trascorso, si aprì con uno slogan molto triste: «Dio è morto», aveva lasciato detto Nietzsche, credendo di annunciare la nascita di un uomo finalmente «superiore».

Ma, già nei primi vent’anni, due terribili sventure (la prima guerra mondiale che provocò nove milioni di morti e un’epidemia che ne uccise altri ventidue milioni) mostravano che era l’uomo che continuava a morire, e spesso in maniera assurda.

Nel 1921 Madeleine Delbrêl ha diciassette anni, e scrive un tema di un impressionante radicalismo che inizia così: «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». La ragazza è spietata: se Dio è morto, allora a dominare è la morte e bisogna prenderne atto coraggiosamente. Scrive: «Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso». Secondo lei, i rivoluzionari «sono interessanti, ma hanno capito male il problema», perché vogliono un mondo nuovo senza pensare che, poi, bisogna comunque abbandonarlo. Gli scienziati «sono un po’ bambini», perché sperano, con le loro ricerche e i loro ritrovati, di riuscire a debellare la morte, e invece riescono ad uccidere soltanto alcuni modi di morire: «la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo». I pacifisti «sono simpatici, ma sono deboli nel calcolo» perché, se anche fossero riusciti ad impedire la prima guerra mondiale del 1915-1918, tutti i morti allora risparmiati sarebbero poi deceduti infallibilmente entro il 1998. La gente perbene «manca di modestia», perché vuol migliorare la vita senza accorgersi che «più la vita è buona, più diventa duro morire». Gli innamorati «sono radicalmente illogici e restii a ragionare»: si promettono amore eterno, ma diventano «sempre più infedeli» perché, ad ogni giorno che passa, si avvicinano sempre di più all’estremo abbandono. E annota: «Io non vorrei restare vicino, da vecchia, all’uomo che dovessi amare: vedrebbe cadere i miei denti, raggrinzirsi la mia pelle, e il mio corpo mutarsi in un’otre o in un fico secco». Le mamme poi «sarebbero pronte ad inventare la felicità», pur di assicurarla ai loro figli, i quali, però, se anche non diventeranno «carne da cannone», diventeranno pur sempre «carne da morte». Perciò conclude: «Io non voglio avere bambini. È già abbastanza che segua tutti i giorni in anticipo i funerali dei miei genitori».

Per Madeleine insomma le uniche persone serie sono gli artigiani e gli artisti, che fanno cose che durano come le sedie, i quadri, le poesie… Poi ci sono quelli «che ammazzano il tempo, aspettando che il tempo ammazzi loro…». «Io sono una di queste…», conclude. Così si presenta dunque Madeleine a diciassette anni: il componimento, che abbiamo dovuto sintetizzare, è scritto magnificamente: meriterebbe una lettura integrale, tanto è ricco di annotazioni geniali, di sorrisi addolorati, di lucida disperazione. S’intuisce una sconfinata voglia di vivere e una inesauribile voglia di amare, ma in un cuore che ha imparato di non dover attendere nulla, di non aver nemmeno il diritto di dire «addio!», dato che la parola contiene già quel Nome di un morto («Dio!») che ha trascinato via tutto con sé.

«Anche le parole Dio si è portato via», dice proclamando l’ultima evidenza, come se scoppiasse a piangere. E conclude il suo tema: «Si può dire a un morente, senza mancare di tatto, “buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice: arrivederci” o “addio”, … finché non si sarà imparato a dire: “a non vederci più in alcun luogo…”, “al nulla assoluto”». Che ne sarà di una ragazza così? Madeleine ha una vitalità prorompente e non pensa certo a lasciarsi andare.

Con le amiche più care, in un bel giorno di primavera, sceglie «la sua vocazione»: «restare sempre giovani, qualunque cosa accada, per quanti anni passino!…». A diciott’anni s’innamora: lui, Jean, è alto, sportivo, serio, pieno di interessi, intellettualmente e politicamente impegnato ed evidentemente dotato di una profonda vita spirituale. Fanno coppia fissa e tutti dicono che sembrano nati l’uno per l’altra… Improvvisamente il ragazzo scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta. Non capisce. Il suo anticlericalismo si riaccende violento, e per di più anche in famiglia la sofferenza dilaga: il papà di Madeleine — ferroviere e poeta mancato — diventa cieco e va gridando la sua angoscia perfino per le strade, per le quali si trascina disperato come un barbone. «In quel momento», confessa, «avrei dato tutto l’universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!». Il problema della fede si pone, ma non perché ella sia in cerca di conforto. Scrive: «Cento mondi, ancora più disperati di quello in cui vivevo, non mi avrebbero fatto vacillare, se mi avessero proposto la fede come consolazione». A perseguitarla è, invece, il ricordo della bella umanità di Jean e di altri amici conosciuti in quel periodo felice: «Mi era accaduto l’incontro con parecchi cristiani né più vecchi, né più stupidi, né più idealisti di me, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me. Anzi, avevano al loro attivo alcune superiorità: lavoravano più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo, convinzioni politiche che io non avevo… Parlavano di tutto, ma anche di Dio che pareva essere a loro indispensabile come l’aria. Erano a loro agio con tutti, ma – con una impertinenza che arrivava fino a scusarsene – mescolavano in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, idee, messe a punto di Gesù Cristo. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo…». E tra tutti quei cristiani che l’hanno costretta a pensare, un posto di rilievo l’ha certamente quel Jean che ha considerato Dio talmente reale da lasciare lei. La ragazza diciassettenne che aveva formulato in maniera durissima e consequenziale il suo ateismo è ora una ventenne costretta a compiere un percorso inaspettato. Prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio e, se si faceva qualche domanda, essa suonava così: «Come si conferma l’inesistenza di Dio?»; ora la domanda diventa: «Dio potrebbe forse esistere?». Ma capisce di conseguenza che, se cambia la domanda, deve cambiare anche il suo atteggiamento interiore. Ricorda allora che «in occasione di un baccano qualsiasi, era stata ricordata Teresa d’Avila che consigliava di pensare in silenzio a Dio cinque minuti ogni giorno». Ed ecco la conclusione: «Scelsi quel che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare!». Un simile racconto di conversione tocca delle notevoli profondità pedagogiche. Madeleine non prega perché si è convertita, prega perché quello è l’unico atteggiamento possibile ed onesto, una volta accettata l’ipotesi che Dio potrebbe esistere. Il suo sì non è il risultato di una convinzione acquisita (e quindi, in qualche modo, necessitato), ma il regalo anticipato a un Dio che, se esiste, è Tutto. Il Tutto merita tutto, anche se si ha soltanto il presentimento del suo esistere. E Madeleine non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: «abbagliamento», e dirà: «poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto” che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona». Quasi echeggiando sant’Agostino, dialogherà con l’Altissimo, colma di stupore: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t’ho ringraziato d’avermi fatto vivere, t’ho ringraziato per la vita del mondo intero». Dopo una simile esperienza, sembra esserci una sola vocazione possibile: vivere in modo che la preghiera diventi tutta la vita. E infatti Madeleine pensa subito di entrare al Carmelo. Ma si accorge che è lo stesso Dio a tenerla legata a una situazione familiare irrisolvibile, dato che il papà sprofonda sempre più nelle sue angosce e la mamma è al limite della resistenza. Ma se il Carmelo non è possibile, allora ne segue inevitabilmente che il mondo dovrà diventare il suo Carmelo, il suo monastero. Comincia imbevendosi degli scritti di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, poi frequenta la sua parrocchia come una cristiana qualsiasi, e qui le viene incontro, come un dono, un prete straordinario: Padre Lorenzo, «un prete che voleva essere soltanto prete» e che «insegnava a vivere il Vangelo dappertutto» facendolo diventare «una chiamata attuale, una chiamata personale» per ogni ascoltatore. Madeleine lo definiva: «il Buon Samaritano della Parola», perché la donava come guarigione e salvezza a tutti coloro che incontrava per strada. Si faceva compagno a tutti, ma poi li educava, uno per uno, a saper «restare soli col Signore Gesù» per lasciare Dio libero di agire a suo piacimento. In quei primi anni di “vita cristiana” ella è appassionata di letteratura: pubblica saggi e libri di poesie (ottenendo anche un prestigioso premio letterario), che hanno a tema ciò che è “umilmente doloroso”, ciò che si muove a fatica nelle strade desolate della città. Ma ecco che padre Lorenzo le propone di impegnarsi nel movimento scout, quanto di più lontano ella poteva immaginare dalle sue passate preoccupazioni intellettuali e artistiche.

Deve imparare giochi, canti, esercizi fisici per guidare la sua squadriglia e dimostra una vivacità instancabile e un’intelligenza pedagogica così sicura che ben presto le affidano l’educazione delle ragazze più grandi, destinate ad essere responsabili, e la sua parola d’ordine è «gioia».

Dallo scoutismo, con una ventina di ragazze, passa poi a formare un gruppo detto «Carità», nel ricordo dell’impresa di san Vincenzo de’ Paoli che aveva dato questo nome alle comunità di donne che si prendevano cura dei malati e degli emarginati.

Ha un solo progetto chiaro: «Essere volontariamente di Dio, quanto una creatura umana può volere appartenere a colui che ama. Essere volontariamente proprietà di Dio, nella stessa maniera totale, esclusiva, definitiva, pubblica con cui lo diviene una religiosa che si consacra a Dio». In altre parole: ciò che di più profondo c’è nel sacramento del matrimonio e ciò che di più totale c’è nella vocazione religiosa, ella vuole viverlo nel mondo.

A tale scopo, la scelta della verginità è indiscutibile (e ciò rende necessario anche un orientamento contemplativo), ma ella vivrà tutto ciò senza allontanarsi dal mondo. Il suo progetto è di «far calare i consigli evangelici nella vita laica». Siamo in un tempo in cui l’accostamento di questi termini sembra ancora strano; non esistono ancora i moderni «istituti secolari» e non si immagina nemmeno la possibilità di una vita comune tra cristiani laici. Madeleine sceglie perciò un lavoro che la possa tenere a stretto contatto con i poveri, assoggettandosi agli studi necessari per divenire assistente sociale. Nel 1930 ciò significa essere destinate ai bassifondi delle città dove si ammassano poveri e operai, il vero proletariato, soggetto a sfruttamento, che pone nel marxismo le proprie speranze di riscatto. Così una decina di ragazze – senza voti religiosi, senza abito particolare e senza difese istituzionali – decidono di partire per la periferia di Parigi con l’intento di vivere assieme, lavorando in mezzo alla gente più povera, mettendo tutto in comune, senza avere alcuna proprietà (né personalmente né assieme). Formano una comunità «casta, povera e obbediente» che ha come unica regola l’approfondimento comunitario del Vangelo, e come unica struttura stabile il riferimento ad una responsabile. Secondo Madeleine, il gruppo deve essere così semplice e umile, nel normale tessuto della Chiesa, che quasi non bisognerebbe nemmeno vederlo.

Con un paragone dolcissimo, scrive: «Il mio sogno è che il nostro gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l’ha messo. Se il filo si vede, allora il vestito è riuscito male». Prima che si riesca a realizzare l’impresa, il gruppetto si assottiglia molto: di dieci ragazze, ne restano tre. A Ivry (una cittadina vicino Parigi) offrono loro un «Centro di azione sociale» e le tre coraggiose fissano la loro partenza per il 15 ottobre 1933. La festa di santa Teresa d’Avila è stata scelta appositamente, perché è un monastero «nuovo» quello che vanno a fondare: è una vita contemplativa «nuova» quella che le attende. Partono con poche suppellettili e una statua della Madonna tra le braccia. Certi resoconti sulla situazione a Ivry, risalenti a quegli anni, ci fanno capire bene a cosa vanno incontro. Gli operai lavorano circa dodici ore al giorno, privi di ogni sicurezza sociale e sanitaria, oltreché di ogni previdenza; sono mal pagati, ammassati in alloggi fatiscenti. Le donne sono costrette anch’esse ad andare in fabbrica perché la famiglia possa sopravvivere. La salute è un lusso. Negli anni ’40, nel quartiere più industrializzato della città, su quindicimila abitanti, se ne conteranno ancora 2000 ammalati di tubercolosi. L’alcoolismo diffuso è assieme una piaga e un rifugio. La Chiesa serve solo agli anziani; gli altri la frequentano soltanto per battesimi, matrimoni e funerali.

Di fatto Ivry è diventata “la capitale politica del Partito Comunista Francese”, sede del segretario generale del partito. Sugli edifici pubblici non c’è il tricolore, ma la bandiera rossa. I muri sono tappezzati di manifesti che invitano a film sovietici, conferenze ideologiche, battesimi civili, pasque rosse, e simili. L’amministrazione comunale – in fatto di alloggi e impieghi – privilegia gli iscritti al partito. Ci si saluta col pugno alzato, e i preti non si meravigliano troppo se per strada i monelli li prendono a sassate. Perfino i ragazzi nel gioco o nelle sassaiole – per marcare con chiarezza il solito antagonismo di squadra – attribuiscono agli avversari il nome di «preti», mentre tutti vorrebbero appartenere alla squadra dei «compagni». Madeleine è talmente estranea a un tale ambiente da ignorare perfino il significato della bandiera rossa. L’unica cosa che sa è che ha, davanti a sé, persone «non credenti e povere». Ciò che le tre ragazze desiderano – nella loro estrema e volontaria povertà – è «vivere gomito a gomito» con la gente, senza dissociarsi in nulla, se non nell’amore e nella fede. Rinunciano alla loro divisa da scout, quando s’accorgono che infastidisce e allontana gli altri, e poi fanno ciò che sanno fare. Madeleine è assistente sociale (o meglio: sta ancora studiando per diventarlo), una delle due compagne è infermiera, l’altra è maestra d’asilo. Cominciano a partecipare alle attività parrocchiali, ma s’accorgono che questo le emargina. Perciò vanno in mezzo alla gente, sfidando le ostilità. Fanno quello che possono, ma con fantasia tutta femminile. Un giorno che una famiglia povera le ha restituito in malo modo il pacco-dono (di scarso valore, del resto), Madeleine, per farsi perdonare, si presenta con un mazzo di rose e lo mette in braccio a una povera donna che non ne ha mai ricevute in vita sua… E il capo famiglia, arrabbiato militante comunista, le dice commosso: «Se la carità è questa, allora voglio proprio parlare di carità…”. Ed ecco che padre Lorenzo viene fortunatamente nominato parroco a Ivry e i cristiani, prima asserragliati in difesa, si mobilitano. La questione dei rapporti tra cattolici e comunisti non è teorizzata o discussa da Madeleine, ma risolta di schianto in base a un semplicissimo principio: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, eccetto i comunisti», perciò c’è solo da accogliere l’evidenza: i comunisti sono di fatto «il suo prossimo» più immediato. Perciò non li evita, come raccomandano i benpensanti, ed è pronta a riconoscere quel che c’è di buono – come aspirazione alla giustizia e dedizione reciproca – in quei rudi militanti della prima ora. E perfino pronta a un dialogo con loro quando si tratta di assistere i disoccupati. Si ferma soltanto quando si scontra col problema della violenza. I comunisti le spiegano che ci sono violenze così terribili e solidificate che non possono essere estirpate se non passando attraverso una violenza di segno contrario. Il Vangelo invece le dice di amare ogni uomo e tutti gli uomini senza alcuna eccezione. Madeleine legge e rilegge il Vangelo, e la contraddizione le appare sempre più evidente e irrisolvibile, ma è solo il primo colpo assestato alla sua istintiva generosità e voglia di giustizia. L’altro colpo è ancora più grave: i testi-guida del partito – che ella legge attentamente – insegnano che l’ateismo è essenziale alla lotta operaia, e che inculcarlo nelle anime dei giovani è lo scopo primario dell’educazione. «In quel tempo», racconta, «sussultai di paura per Dio, mio bene». E fu così che tra lei e il marxismo si scavò «un abisso incolmabile»: con il marxismo, non con i marxisti. La tentazione di cedere anche all’ideologia era stata però fortissima, perché le si era presentata ammantata d’amore per gli uomini. Ma il suo cuore, votato in profondità all’amore per Dio, aveva subito intuito l’inganno e aveva reagito. Con questi travagli, l’identità del gruppo si precisa. Nel 1938 Madeleine scrive un testo programmatico che resterà celebre (e che ella pubblica significativamente sulla rivista «Etudes Carmélitaines»). È intitolato: «Noi, gente della strada» e proclama che ci sono cristiani per i quali «la strada» – cioè: il pezzo di mondo in cui Dio, di volta in volta, li manda – «è il luogo della santità», come lo è il monastero per le persone consacrate. E’ la vocazione specifica della «gente qualunque», in un «luogo qualunque», che svolge «un lavoro qualunque», assieme ad altri «uomini qualunque» e che, tuttavia, «si tuffa in Dio» con lo stesso movimento con cui «si immerge nel mondo». Ma dove trovare il silenzio che le claustrali custodiscono nei loro monasteri? Madeleine spiega che nel mondo non è certo difficile trovare «ammassi umani dove l’odio, la cupidigia, l’alcool segnano il peccato», ma proprio qui diventa possibile esperimentare «un silenzio di deserto nel quale il nostro cuore si raccoglie con facilità estrema». E dove trovare la solitudine? Risponde: «La nostra solitudine non è essere soli… La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque». Insomma, a Madeleine Gesù non dice soltanto: «Seguimi!», ma: «Seguimi in strada!», e le chiede di camminare con Lui, a fianco di tutti i poveri della terra, soprattutto di quelli che non sanno più dove portino i sentieri dell’esistenza. Se, dunque, il monastero è per lei semplicemente il mondo – senza distinzione tra spazi sacri e profani -, nemmeno la preghiera deve più distinguersi dall’azione, non perché si dimentichino i tempi dell’orazione, ma perché anche l’azione diventi preghiera. A chi le obietta, secondo una mentalità assai diffusa, che non è possibile essere tutti di Dio quando si è chiamati a vivere da laici, in mezzo al mondo, Madeleine ribatte: «Non è concepibile che un Dio onnipotente, mentre vuole essere amato, dia ai suoi figli una vita nella quale non possano amarLo». Ritrovando i più begli insegnamenti di santa Teresa di Lisieux, ma compresi da laica, scrive: «Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida: l’incontro dell’anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?… Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l’ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare». Anche Madeleine era affascinata dalla vocazione missionaria. Ma alla tradizionale descrizione del missionario vestito di bianco che sbarca su rive lontane e contempla la lunga distesa delle «terre non ancora battezzate», ella sostituisce un’altra immagine: “Il missionario, in abito o giacca o in impermeabile, dall’alto di una scalinata del metrò, vede di gradino in gradino, nell’ora di punta, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l’apertura dei cancelli: una distesa di baschi, berretti, cappelli, copricapo di tutti i colori. Centinaia di teste, centinaia di anime. E noi lì in alto. E, più in alto, dappertutto, Dio…». E quando diceva che si poteva pregare ed essere missionari anche accalcati nel metrò, intendeva questo: «Signore, i miei occhi, le mie mani, la mia bocca sono tuoi. / Questa donna così triste davanti a me: ecco la mia bocca perché tu le sorrida. / Questo bambino quasi grigio, tanto è pallido: ecco i miei occhi perché tu lo guardi. / Quest’uomo così stanco: ecco tutto il mio corpo perché tu gli lasci il mio posto, ed ecco la mia bocca perché tu gli dica dolcemente: “Sedetevi”. / Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro, ecco il mio cuore perché tu lo ami, più di quanto non lo sia mai stato…». E, citando san Giovanni della Croce, spiegava: «Si semina Dio all’interno del mondo, sicuri che germoglierà da qualche parte, perché: “Dove non c’è amore, mettete amore e raccoglierete amore ». E venne il tempo della lotta, quando la Francia dovette reagire all’aggressione nazista e subire poi la sconfitta e l’occupazione…: la nazione sembrava distrutta e le città sembravano sfaldarsi. Perfino le più naturali appartenenze, sociali e familiari, sembravano essersi dissolte. Già nel corso della guerra, Madeleine diventa, a Ivry, un punto naturale di aggregazione nella lotta contro la miseria e il disfacimento, tanto che la città si tramuta in un geniale laboratorio di ricostruzione (soprattutto a favore delle famiglie) al quale si guarda da tutta la Francia. Perfino il «Soccorso Nazionale» guarda alla Delbrêl e alla sua équipe, e le chiede di preparare personale ausiliario per le assistenti sociali. Ella accetta, ma chiede di educare le giovani “sul campo”, cioè mettendole al lavoro. Si tratta di una “Veglia d’Armi” – così intitola un testo destinato alla loro formazione – in cui spiega che si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che dev’essere incontrata «con dolcezza». Ma che cos’è la dolcezza? Spiega: «È ciò che riesce a toccare senza ferire», e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire». Quando manda le sue giovani a «visitare le famiglie», le avverte che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano i figli, e fratelli che visitano i fratelli. È un lavoro stressante che esige coraggio a ritmo continuo (di coraggio «se ne consuma in un’ora quanto in altri tempi ne bastava per un anno») e che dura ininterrottamente fino alla Liberazione, che per altro non impedisce l’ultima atrocità: il bombardamento di Ivry accade dopo che le truppe tedesche sono già partite. Quando i comunisti tornano al potere, Madeleine spiega loro che è disposta a lavorare ancora, ma che il suo programma non cambierà, anche perché esso è assolutamente semplice e completo: «Quel che mi propongo è la diminuzione delle sofferenze e un accrescimento di felicità». Dopo due anni, lascia tuttavia il servizio sociale in municipio, sorprendendo tutti. Si è accorta che la sua piccola comunità risente della sua eccessiva attività. Ella conosce bene le urgenze sociali che premono da ogni lato e sente salire, da ogni parte, l’invocazione dei poveri… Ma la comunità – quella comunità ormai composta di una decina di donne che guardano a lei come a una guida e a una madre – è per lei «un sacramento della Presenza di Gesù». Il mondo non deve guardare a lei e alla sua personale bravura, ma alla piccola comunità di Cristo. Riconsegnandosi alla sua comunità, Madeleine vuole garantirsi di obbedire al Signore Gesù e non ai propri successi. La comunità vive in rue Raspail ed è «un enigma scientifico», come dice un’amica di passaggio. L’unica regola e l’unico ideale è la carità fraterna, come segno dell’amore di ciascuna a Cristo: ognuna poi lavora nel quartiere accanto ai più poveri, e la casa è un porto di mare perché la porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, disponibile per ogni sostegno. E c’è perfino chi si aggiusta per riuscire a vivere nei dintorni di quella casa straordinaria: nel giardino, ad esempio, o nell’appartamentino vicino, o in una mansarda. Così la comunità si allarga a una congrega variopinta di «amici» e di «fratelli» che chiedono e danno solidarietà nei campi più disparati. Madeleine considera quella casa come una persona viva. La chiama «il signor Raspail» (dal nome della via) e la descrive così: «Il signor Raspail è un personaggio assai difficile da presentare… è un uomo di mezza età, né bene né male, piuttosto simpatico, piuttosto malvestito, dall’aria soddisfatta della sua sorte. Le persone lo giudicano rivoluzionario, i pettegoli pensano che sia un ex seminarista, i maldicenti suppongono che abbia costumi equivoci… Tanta gente va da lui e cerca la sua compagnia…». In tale strana compagnia, il compito proprio di Madeleine sembra quello di far sentire a ciascuno/a d’essere preferito/a: ella, infatti, sembra possedere una inesauribile tenerezza per tutti. «Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza», spiegava un ragazzo disadattato dopo averla incontrata, e illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato… Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere nella mia coscienza, quando ancora tutti gli altri mi ignoravano…». Non c’è nulla che Madeleine trascuri: può inventare un regalo, o una canzone o una scenetta comica, se ciò serve agli amici. Può immergersi nella preghiera, scrivere un articolo o una poesia, o dare una conferenza, o battersi per i diritti di qualche perseguitato politico: il tutto con la stessa foga e la stessa lucida intelligenza; il tutto con l’evidente «gioia di credere». Intanto la Francia ha un doloroso sussulto: scopre di essere diventata «una terra di missione» e il cardinale di Parigi pensa di affrontare il problema della scristianizzazione delle masse operaie come lo si affronta nei paesi di missione. Così a Lisieux viene aperto un seminario particolare – posto sotto la protezione di santa Teresa – che dovrà preparare un nuovo tipo di prete, capace di andare là dove la fede sembra non solo scomparsa, ma divenuta impossibile: nelle periferie più abbandonate, nei quartieri operai, nelle fabbriche. Madeleine esulta perché sembra che la sua originaria intuizione stia quasi per diventare un progetto che la Chiesa assume in proprio. La nuova esperienza si dilata, cresce vertiginosamente e dà origine al fenomeno dei preti che tentano di portare il Vangelo nelle fabbriche, facendosi essi stessi operai, condividendo le pene, le fatiche, le lotte dei lavoratori. Ma non è facile farlo senza schierarsi, senza condividere le lotte sociali e politiche, senza aderire al partito che rappresenta i lavoratori, senza cedere prima o poi all’ideologia marxista che impera, senza accettare la logica dello scontro e della violenza… Madeleine vede molti preti – ministri di quel Cristo che ella ama con tutta se stessa – cedere alla tentazione che ella ben conosce per averla già subita: quella di mettere a rischio la loro stessa vocazione, lasciandosi trascinare dagli «ingranaggi accecanti» della lotta di classe. Roma interviene e, con pronunciamenti successivi, sconfessa l’esperienza dei preti-operai, così come veniva allora condotta. Madeleine soffre fino in fondo all’anima: da un lato vorrebbe che quello sforzo generoso di preti generosi – che ella conosce personalmente ed ammira – venisse compreso e valorizzato, e non accetta i giudizi superficiali dei troppi benpensanti; dall’altro comprende ancor più le preoccupazioni della Chiesa che vede ideologizzato e reso di parte il suo ministero sacerdotale, e teme ormai per la fede dei suoi preti. Per conto suo ella ha maturato una convinzione: a quella esperienza straordinaria è mancato il sostegno della preghiera di tutti i cristiani. L’errore è stato di esporre così i preti, nella trincea più avanzata, senza che tutti i cristiani si stringessero assieme in una preghiera corale e intensissima per sostenerli. E un altro problema ancora ella vede: troppo scarso è l’amore alla Chiesa. Troppo poco gli uomini capiscono che «la Chiesa li ama» – anche la Chiesa considerata nei suoi aspetti istituzionali e gerarchici – e troppo poco questa Chiesa si preoccupa di far capire il suo amore per gli uomini. Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma che per lei è «una specie di sacramento di Cristo-Chiesa». E’ un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché «certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se non a Roma». Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte a san Pietro, pregando «a perdita di cuore». Racconterà poi: «Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe far passare nei segni della Chiesa». Quando torna a Ivry viene a sapere che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla e il papa aveva atteso invano. L’attaccamento di Madeleine alla Chiesa è indistruttibile. Ella ne parla sempre come del «Cristo-di-ora». Nel corpo della Chiesa si deve essere soltanto «cellule viventi e amanti». «Quando si hanno ragioni per non capire», scrive, «bisogna pregare due volte, riflettere due volte, scusare due volte quel che non si capisce. Dove la nostra carità è messa in tentazione, bisogna volere due volte la carità». L’anno successivo, la tempesta si aggrava ancora; ella torna a Roma e questa volta può parlare al papa per qualche minuto. Nella breve risposta, il papa le ripete per tre volte la parola: «Apostolato». e Madeleine se ne torna via molto colpita da quella strana parola. In Francia la parola d’ordine è «missione», nessuno usa più il termine «apostolato», e Madeleine intuisce che c’è qualcosa di profetico nell’insistenza del pontefice. Si accorge che nel progetto di «missione», a cui anch’ella si è appassionata, c’è in primo piano l’annuncio della Buona Novella e la preoccupazione della salvezza degli uomini, ma che ne è della preoccupazione «per la gloria di Dio»? Che ne è della preoccupazione perché Dio sia adorato e amato, perché Dio «cessi di essere morto» per i marxisti?

Capisce così che una vera missione, condotta alla maniera degli apostoli, dovrà muoversi su due direttive: risvegliare in sé e nei credenti il senso dell’adorazione di Dio che vuole essere conosciuto e amato come una persona viva, e poi testimoniare questo attaccamento a Lui, occupandosi della salvezza del prossimo. In fondo si tratta ancora dell’essenziale unità dei due più grandi comandamenti e delle necessarie priorità nell’amore. Per Madeleine è come scoprire in sé lo stesso amore di prima ai fratelli più poveri e a quelli che lottano – e agli stessi marxisti – ma rigenerato da una nuova maternità ecclesiale. In un suo celebre testo intitolato: «Città marxista, terra di missione», arriva a scrivere: «Se ti amo, comunista, non è malgrado la Chiesa, è grazie a lei e in lei!». Intanto il suo gruppo, la sua piccola comunità, è alla ricerca di una identità: tutti cominciano a chiedersi quale sia il «posto» che essa occupa nella Chiesa. C’è chi vorrebbe che Madeleine aggregasse la sua comunità a qualche ordine religioso già esistente o a qualche organizzazione ecclesiale. Come si può lasciare una comunità di vergini, protese all’amore di Cristo e al servizio ecclesiale, senza nessuna regola e nessuna salvaguardia giuridica? Per fortuna, a Roma, un monsignore francese che ha una qualche influenza protegge la comunità con la sua amicizia e la sua guida. Si chiama mons. Veuillot. In seguito diventerà Cardinale Segretario di Stato di Paolo VI. Nel 1956 costui pone a Madeleine la domanda decisiva: che cosa pensa «lei stessa, per lei stessa?». Di getto Madeleine scrive un testo in cui le frasi si susseguono tutte ritmate da un appassionato: «Avrei voluto…». «Avrei voluto unicamente, appartenere interamente ed esclusivamente a Gesù, Nostro Signore e nostro Dio; avrei voluto provare a vivere il suo Vangelo, essere completamente disponibile alla sua volontà, nel più intimo della Chiesa e per la salvezza dell’uomo… Avrei voluto che ciò bastasse a spiegare tutto». Senza saperlo, però, Madeleine non sta soltanto offrendo alla Chiesa un fedele in più che prende sul serio la vocazione alla santità: sta descrivendo un «nuovo tipo di cristiano» tutto appartenente a Gesù e tutto innestato nel mondo. Oggi, perfino i Dizionari di Teologia già citano tale nuova «tipologia» offerta da Madeleine e sintetizzano il suo insegnamento in questo testo: «Quando teniamo il Vangelo tra le mani, dobbiamo pensare che lì abiti il Verbo che vuole farsi carne in noi, impadronirsi di noi, perché con il Suo cuore innestato nel nostro cuore e con il Suo Spirito comunicante col nostro spirito, noi diamo nuovo inizio alla Sua vita in un altro luogo, in un altro tempo, in un’altra società». E fu vivendo in prima persona questo ideale che ella divenne una maestra di preghiera: di una preghiera che poteva essere fatta dovunque e che poteva accompagnare il credente in ogni attimo della giornata Hans Urs von Balthasar – uno tra i più grandi teologi del nostro tempo – diceva che la personalità e gli scritti della Delbrêl manifestano qualità contrastanti e paradossali: da un lato una profonda serietà e dall’altro uno humour sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall’altro uno forte realismo nelle analisi sociali e psicologiche; da un lato l’appartenenza ecclesiale vissuta fin nel midollo delle ossa e dall’altro un’assoluta libertà dai consueti clichés ecclesiastici. Ma spiegava che ella riusciva a tener uniti questi aspetti contrastanti in forza della qualità straordinaria della sua preghiera. Quando qualcuno domandava un colloquio a Madeleine, l’incontro cominciava sempre con qualche minuto di silenzio, il tempo che le occorreva per accendersi accuratamente una sigaretta. Solo i più intimi sapevano che quello era il tempo che ella si concedeva per pregare per la persona che aveva di fronte, prima di cominciare il dialogo. E se l’episodio fa sorridere, esso appartiene – dal vivo – allo stesso mondo che Madeleine ha descritto in un libretto di massime da lei attribuite ad Alcide, piccolo monaco che scopre ogni giorno l’incredibile saggezza che si acquista quando si vive in familiarità con Dio. «Per chi cerca Dio come lo cercava Mosè», spiega Alcide, «anche una scala può trasformarsi in Monte Sinai».

E il fatto di poter trovare Dio sempre, anche fumando una sigaretta, dipendeva dalla certezza che il piccolo monaco esprimeva così: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». L’importante era saper vincere l’errore più strano che noi commettiamo, quello che lo stesso Alcide indicava con la invocazione-domanda: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». Madeleine non voleva «essere altrove», nemmeno quando fumava una sigaretta. Negli ultimi anni di vita, ella ebbe la gioia di intravedere i tempi nuovi, anche se la questione dei «preti operai» – che si concludeva in quegli anni con la definitiva interdizione dell’esperienza – la faceva nuovamente soffrire. Dapprima la rallegrò l’avvento di papa Giovanni XXIII, così caritatevole e semplice che la faceva sentire – disse – «come una analfabeta del Vangelo». Poi la riempì d’entusiasmo la celebrazione del Concilio Vaticano II, riflettendo sul quale trova una delle sue espressioni più belle: «Il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”».

Aveva solo sessant’anni e già si sentiva stanca, ma continuava a provare un’estrema ripugnanza al pensiero della morte. Diceva, sentendosi un po’ in colpa: «Probabilmente sono stata battezzata a metà…», ma si consolava al pensiero che «anche Gesù provava una specie di indignazione ogni volta che si trovava davanti alla morte». Ma la sua capacità di immedesimazione amorosa negli altri era intatta. Una foto del luglio 1964 (tre mesi prima della morte) la mostra accoccolata a terra di fronte a una bambinetta, e tra loro c’è una trottola che gira. Il 13 ottobre 1964, a Roma – per la prima volta nella storia della Chiesa – un laico prendeva la parola nell’aula conciliare, per parlare a tutti i Vescovi del mondo sul tema dell’Apostolato dei laici… In quello stesso pomeriggio, a Ivry, Madeleine si accasciava sul suo tavolo da lavoro: se ne era andata senza disturbare nessuno…

Nel suo messale, le compagne trovarono alcune parole risalenti a dieci anni prima, e da lei scritte per commemorare il trentesimo anniversario della propria “conversione”.

Per segnare il proprio radicale abbandono a Dio, maturato in quegli anni, aveva scritto: “IO VOGLIO CIO’ CHE TU VUOI/SENZA CHIEDERMI se lo posso/SENZA CHIEDERMI se lo desidero/SENZA CHIEDERMI se lo voglio”.

Il programma che lasciava alle sue figlie e a innumerevoli amici – per giungere a tanta assolutezza – poteva essere espresso con una frase soltanto: “Leggere il vangelo – tenuto dalle mani della Chiesa – come si mangia il pane”.

Nata nel 1904 a Mussidan (Francia), educata in un ambiente borghese e scristianizzato, a quindici anni Madeleine Delbrêl si dichiara atea e pessimista. “Il mondo è un assurdo, la vita è un non senso”. Verso i venti anni l’incontro con alcuni giovani cristiani “ai quali Dio pareva essere indispensabile come l’aria” la costringono a pensare. La ragazza che fino a poco tempo prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio, accetta l’ipotesi della sua possibile esistenza e si trova a compiere un cammino inaspettato: sceglie di pregare. Madeleine affonda nella preghiera, non perché già convertita ma perché convinta che sia l’unico atteggiamento possibile e onesto per verificare l’esistenza di Dio. Attraverso la preghiera rimane, come dirà lei stessa, “abbagliata” da Dio.

La giovane decide di entrare in Carmelo, poi a seguito di problemi famigliari e grazie all’aiuto del suo padre spirituale, decide che la sua strada sarà un’altra: il mondo diventerà il suo monastero. In un’epoca in cui l’unica scelta per Dio era all’interno di un’istituzione religiosa, la scelta di Madeleine appare coraggiosa e non facile da comprendere. Nel 1933, assieme ad un gruppo di ragazze, parte per Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, con l’intento di vivere assieme mettendo tutto in comune, nella povertà, nella testimonianza del Vangelo, in mezzo ai poveri.

All’epoca Ivry è la capitale del partito comunista francese, una città tappezzata da manifesti di propaganda sovietica, in cui ci saluta con il pugno alzato e dove i bambini del quartiere prendono a sassate i preti che incrociano. E’ una città divisa in due: da una parte un pugno di cattolici, soprattutto anziani e benestanti, e dall’altra una moltitudine di militanti comunisti, poveri e lontani dalla Chiesa. Tra queste due parti l’ostilità è fortissima, in ambito cattolico si discute molto su quale dovesse essere il rapporto fra cristiani e marxisti.

Madeleine risolve la questione in base ad un principio molto semplice: “Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso eccetto i comunisti”. Lei e le sue compagne, spinte dal Vangelo, vanno in mezzo alla gente, parlano con tutti, rispettano, amano. Questo piccolo gruppo di donne si conquista ben presto i cuori di tanti comunisti.

La loro è una comunità di donne totalmente laiche, senza abito religioso o difese istituzionali, che fa della strada la sua terra di missione. La loro casa è un porto di mare, la loro porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, ad ogni sostegno. La scelta di Madeleine è quella di vivere come tutti – ognuna di loro ha un proprio lavoro civile – “gomito a gomito” con la gente del mondo ma è allo stesso tempo quella di tuffarsi in Dio con la stessa forza con cui ci si immerge nel mondo.

Madeleine Delbrêl muore nel 1964 sul suo tavolo di lavoro, lasciando una gran quantità di scritti, poesie e testi. Tali scritti stampati in migliaia di copie, hanno accompagnato la ricerca spirituale di intere generazioni.

Il Cardinal Carlo Maria Martini l’ha definita “una delle più grandi mistiche del XX secolo”. Compagne di Madeleine Delbrel sono ancora presenti a Parigi e Amiens. Un comitato di “Amici di Madeleine Delbrêl” raccoglie un gruppo di oltre 500 persone e, in Francia ed altrove, continua a diffondere la sua spiritualità. Il suo processo di beatificazione è attualmente in corso.